Un orecchio di nome Giovanni.
Una storia di disabilità per i miei figli.

di Manuela Marino Cerrato

Questa storia ha inizio nella mente di Dio.
Sapete, è lì che nascono i sogni più belli.

Mesi più tardi lo possono vedere anche la mamma e il papà. E’ piccolo, è tondeggiante come una mezza luna, è armonioso. Ecco, ora si muove un poco, poiché la manina lo afferra, proprio come quando si vuol fare una buffa smorfia.
E’ un piccolissimo orecchio. Ed è perfetto.
La sua mamma riesce quasi ad immaginarne la morbidezza, e persino il profumo: il profumo tenero di un bimbo appena nato.
Per la prima volta lo riesce a vedere attraverso quello strano televisore che chiamano ecografo. Certo è un po’ sbiadito e in bianco e nero, ma quell’immagine le si imprime nella mente e nel cuore; ad occhi chiusi quell’immagine torna a trovarla, ed è dolcissima. Va tutto benissimo, ma il battito del cuoricino non si sente. “Oggi la funzione audio è fuori uso”, dicono i medici.
Mamma Manuela guarda quel piccolo orecchio, ma vede molto di più. Tanto per cominciare immagina che dall’altro lato del testino ce ne sia uno del tutto simile: infatti di solito è così. Le due orecchiette probabilmente racchiudono un visino già paffuto. Gli occhietti socchiusi, il nasino a patatina. “E’ proprio il tuo fratellino” dice la mamma a Francesco, che ascolta e guarda, guarda e ascolta, con chissà quali pensieri.
Non solo un corpicino rannicchiato e vivace; non solo i centimetri di circonferenza cranica, quelli dell’addome e delle anche. Mamma Manuela e papà Federico non si soffermano neppure un attimo sulla tabella della crescita e gli esami consigliati a questo momento della gravidanza. Vedono Giovanni. Loro figlio. E lo vedono tutto intero, per quello che è. Stupore per un miracolo rinnovato. Attesa e timori di una donna che porta in sé una vita che viene da lontano. Evento che la riempie e la sovrasta; la fa sentire vuota di se stessa e totalmente debitrice; in ginocchio; ringraziamento e lode al datore di ogni vita. Anche Giovanni è dono di Dio, giunto ad arricchire questa famiglia, attraverso bisogni e cambiamenti che ora non si possono immaginare. Si vive il qui ed ora  di questa nuova meraviglia.
Sposa e sposo insieme, nell’intimità del loro abbraccio e delle cose non dette a parole. L’amore conosce tanti linguaggi.

Francesco ancora si nutre del latte di mamma, insieme a lasagne e maccheroni, e lei seguita con gioia e fatica, accogliendo quel bisogno di sentirsi sempre e comunque amato ed accettato: tre anni di coccole, gesti, parole e scoperte.
“Posso mettere io la crema su Giovannino?
Il piccolo orecchio cresce, e insieme a lui tutto il resto. Quel bambino è vivo e vero da prima che vi fosse coscienza di lui. Nessun esame genetico, nessuna probabilità matematica avrebbe potuto rafforzare la consapevolezza o responsabilità di quei genitori. Nessuna umana notizia avrebbe potuto modificarne l’amore, l’attaccamento, quasi con la presunzione di voler modulare l’intensità del sentimento che già li aveva legati a quel figlio. Se anche a quella creaturina fosse mancato un braccio, o una gamba, o una qualsiasi altra cosa, non avrebbero potuto che accoglierla. Probabilmente sgomenti, senza forze e parole, ma, pur senza respiro, “amore” l’avrebbero chiamato, stringendolo forte a sé. E qualcosa di speciale, infatti, c’era già.
Alla nascita i medici dissero che quell’orecchio non sentiva bene, ma che si dovevano fare altri esami. Sminuivano ciò che loro stessi affermavano. “Non fasciatevi la testa prima del tempo”. Intanto papà Federico e mamma Manuela sapevano. Giorno dopo giorno avevano capito che quell’orecchio era speciale.
Tantissime domande e altrettante risposte da dare a persone diverse; molteplicità di volti e di voci confuse ad accavallarsi, in un giorno lunghissimo che durò circa un mese. “Questo orecchio (e pure quell’altro) è rotto, ma non preoccupatevi, perché oggi la tecnologia lo può aggiustare”. Così si espressero gli uomini e le donne in camice bianco, senza neanche preoccuparsi di domandarne il nome.
Mamma e papà reagiscono in modi diversi, ma li raggiunge presto una grande serenità. Si erano conosciuti su un’ambulanza, entrambi volontari in una squadra del soccorso cittadino. In modi e lungo percorsi differenti, avevano incontrato la disabilità, e con essa storie di fatica e sacrificio, di sofferenza e di dono, di prostrazione ma anche di ricchezza grande. Talmente tante cose erano state insegnate loro che avevano imparato ad amare quelle vite che sembravano così diverse. La normalità non esiste, non secondo il senso comune. Ognuno di noi cela in sé un segreto, qualcosa di speciale ed unico che è sempre dono per gli altri. Magari nella difficoltà, anche grande, ma qualsiasi disabilità è in grado di spalancare orizzonti più ampi: quelli dell’umanità vera. Cose come queste giravano continuamente nella mente di Manuela e Federico in quei primi tempi. Ognuno di noi sperimenta sulla propria pelle delle difficoltà. Ad ognuno manca una abilità, o quell’altra; tutti siamo fragili e bisognosi. Grande vantaggio è imparare ad averne coscienza, come prima cosa.
Intanto il nostro amato orecchio cresce, ed è una meraviglia. Naturalmente solo chi non indossa le lenti giuste non riesce a vedere che un orecchio soltanto: e un orecchio che non funziona. Questo è il grande problema. Ed anche la cosa più triste di tanti dottori. Sempre quelli col camice bianco.
Un giorno mamma Manuela e papà Federico portano il loro piccolo in un ospedale grande e pulito, dove tutti sembrano sorridenti. La prima accoglienza è buona, e questo li fa sentire fortunati rispetto ad altre famiglie di cui avevano sentito i racconti. Illusione. Tutti non vedono che un orecchio. Un piccolo orecchio che cammina.
Ipoacusia neurosensoriale profonda bilaterale: praticamente devi prendere il doppio del fiato per pronunciarlo correttamente. E ancora: iter diagnostico, analisi cliniche, terapia riabilitativa, protesi acustiche, controlli audiometrici, logopedia, impianto cocleare. “Scusate…Buongiorno, l’orecchio di cui parlate sono io. Mi chiamo Giovanni”. Naturalmente Giovanni non parla, lui ha solo cinque mesi, ma mamma e papà leggono qualcosa di questo tipo nei suoi occhi. “Mio nome Giovanni”, detto da un bambino più grande nella medesima situazione, avrebbe espresso con uguale forza quello stesso messaggio, così semplice, così essenziale, così tristemente dimenticato.
Di cosa ha bisogno Giovanni? Mamma e papà leggono e s’informano, ascoltano e cercano persone che possano chiarire i loro dubbi. Ma il cuore ci mette poco a capire le cose importanti. Per fortuna mamma e papà ascoltano la voce del cuore e capiscono.
Giovanni vuole il latte di mamma, vuole il calore, la sicurezza, la tenerezza e la coccola come ogni altro bambino che, ad oggi, ha passato più tempo nella calda panciona della mamma che fuori. Giovanni ora ha sei mesi.Giovanni vuole l’amore della sua famiglia. Non ha bisogno di visite, esami, statistiche e curiosità di vario tipo; intrusioni, valutazioni, giudizi, riabilitazioni. Giovanni sente tutto quello di cui ha bisogno. L’amore conosce tutte le lingue del mondo.
Mamma Manuela e papà Federico sanno che a certe cose non si possono sottrarre, che alcune indicazioni sono sicuramente utili e che per tutti loro è iniziato un cammino difficoltoso, ma cominciano a formarsi un pensiero proprio.
I mesi trascorrono e il loro dolce orecchio è sempre più bello. La loro vita familiare è gioiosa e giocosa. Faticosa certamente, così come quella di ogni genitore con due bimbi piccoli. C’è il piccolo orecchio, ma c’è sempre anche l’amata vocina di Francesco.Il bene si moltiplica per divisione, e a nessuno mancano coccole ed abbracci, occhi ed attenzioni.Io sono mamma, lui è papà, lui è fratellino. Ma tu, tu chi sei?Una dottoressa senza camice bianco li aiuta a riflettere su alcune cose importanti.“Il vostro bambino, dal momento che non ode le vostre parole, come si chiama?”
E’ vero, che lingua parlano Manuela, Federico e Francesco? Che lingua parla il loro piccolo, e come si chiama? Ci vuole un segno-nome per Giovanni.
In quei giorni piccolo orecchio rinasce agli occhi e al cuore dei suoi genitori.
Dito indice della mano destra (perché non sono mancini) che ruota dolcemente e ritmicamente in senso orario di lato alla guancia destra; questo per la durata della pronuncia “GIO-VAN-NI”.
Significa “Sorridere” nella Lingua Italiana dei Segni. Quella lingua che mamma Manuela e papà Federico stanno imparando per poterla utilizzare con i loro bambini. E’ la lingua naturale delle persone sorde come Giovanni.Nuovo nome per tutti, naturalmente: nonne, nonni, amici e conoscenti, e poi tutto ciò che li circonda. Il mondo delle cose senza nome diventa il mondo ricco delle cose dette e segnate, disegnate con questa danza delle dita e delle mani che, giorno dopo giorno, diventa più naturale.
La storia che vi ho raccontato ha un inizio ma non ha una fine. E’ una storia che dura anche adesso.
Il piccolo orecchio di nome Giovanni cresce sano e felice.Ancora molte persone si domandano se prima o poi sentirà, e che cosa sentirà, se parlerà e se sarà come gli altri bambini. Papà Federico e mamma Manuela non desiderano che i loro figli siano uguali agli altri bambini, ma che siano se stessi e siano felici. Cercano di insegnare loro tutto il bene che hanno ricevuto. Vogliono regalare a Francesco e Giovanni quelle lenti, forse un po’ magiche, che fanno vedere la bellezza in ogni persona, al di là dell’aspetto fisico e delle abilità.  
“Siamo tutti diversi, ed unici, ma anche tutti uguali agli occhi di Dio”.
L’amato, piccolo orecchio di nome Giovanni racchiude in sé un potenziale infinito. Ha in sé ogni bellezza e ogni possibilità di bene, così come ogni altra creatura che si affaccia alla vita. Federico e Manuela non sono genitori migliori di altri, ma hanno capito che ogni figlio che gli viene affidato è un dono per sé e per il mondo intero.
Ai loro figli vogliono donare, a loro volta, tutti gli strumenti per poter camminare ed andare lontano. Solide radici d’amore e comunione ed ali grandi per librarsi nei cieli più azzurri. La capacità di crescere e diventare veramente uomini e la certezza di essere accolti, amati, desiderati, e attesi dopo la fatica di ogni volo. Figli donati, figli affidati, figli ricchezza, sacrificio e dono di sé per l’unico grande volo della vita, fianco a fianco, di ritorno al Padre.

 

Scritto nell’ autunno- inverno 2010