Crescere e imparare insieme con una grave ipoacusia.
Racconto di un’esperienza
Martina Gerosa (2006)

Premesse
Sono contenta di poter offrire la mia testimonianza di persona con “disabilità uditiva”, si parla di sordità ed è molto positivo che ultimamente capiti più spesso di un tempo che ad avere la parola siano non solo gli esperti sul tema, ma anche coloro che portano il “sapere dell’esperienza”(1), quindi i diretti interessati.
Sono sposata con due bambini. Sono laureata in architettura. In realtà mi sono specializzata in urbanistica, per cui ho approfondito materie come l’antropologia culturale e urbana, da sempre interessata alla città degli uomini più che delle pietre.
Un lavoro che ho svolto come urbanista è stato nell’ambito delle politiche di riqualificazione delle periferie urbane, occupandomi – in un gruppo di lavoro interistituzionale – di un quartiere popolare milanese in cui tra l’altro sono presenti moltissimi immigrati. Quindi più che di barriere architettoniche mi è capitato più spesso di occuparmi di argomenti legati al tema delle barriere della comunicazione, tema centrale anche delle riflessioni che svilupperò ora.
Voglio solo aggiungere che negli ultimi anni mi è capitato entrare in contatto – oltre che con le molte persone con deficit diversi anche molto gravi che conosco ormai da un ventennio – con persone con problemi di udito come me, per cui ho iniziato ad esplorare l’ “arcipelago della sordità” (così si chiama un sito internet: www.arcipelagosordita.it). La riflessione personale si è arricchita attraverso incontri con altre persone ipoacusiche e sorde, tra cui Emiliano Mereghetti, con cui c’è un connubio di idee e sentimenti, al di là delle differenze che connotano i percorsi di vita. Infatti la sua è la storia di un “Sordo con la esse maiuscola”, come Emiliano si definisce, facendo lui parte della comunità dei sordi con la loro cultura e lingua, la Lingua Italiana dei Segni.
Sono consapevole di aver effettuato un percorso peculiare tra le persone con sordità, arrivando a integrarmi pienamente nel contesto sociale, dal punto di vista umano, lavorativo ed altro. Conoscendo numerose situazioni diverse dalla mia, mi sono resa conto dell’importanza che rivestono, nell’esperienza di molti, le associazioni e le figure esperte di riferimento che sanno accogliere, sostenere ed educare le persone verso un grado di autonomia sempre più elevato, aprendole all’ascolto e alla comunicazione. Ho iniziato a raccogliere queste riflessioni a partire dal 2004, quando, in occasione di un Convegno, mi venne chiesto di portare la mia testimonianza. Le idee le ho sviluppate ulteriormente nel corso del tempo in varie occasioni, anche incontrando alcune persone che lavorano con bambini con ipoacusia o sordità.
Innumerevoli sono state le mie conversazioni con Enrica Rèpaci, psicologa che nell’ambito del suo lavoro si occupa pure di bambini e ragazzi (ed oggi adulti) con disabilità uditive e/o comunicative, con cui è impegnata da venticinque anni con un approccio psicologico che vede il coinvolgimento delle famiglie, senza mai tralasciare i contesti di vita. (2) La dottoressa Rèpaci è membro fondatore di ARMEL (Roma), associazione che promuove e diffonde il metodo creativo, stimolativo, riabilitativo della comunicazione orale e scritta con le strutture musicali creato dalla professoressa croata Zora Drezancic (3).
Ho avuto uno scambio di idee con Chiara, una logopedista del Centro Ripamonti di Cusano Milanino. Quando ci incontrammo, esordì: “La sordità, come ogni altra disabilità può essere sentita come un macigno, va sdrammatizzata, quindi raccontando storie di integrazione, i sordi adulti possono focalizzare e comunicare di che cosa hanno avuto bisogno e che cosa è stato utile nei loro percorsi di crescita, in particolare nella scuola!”
Mi è stato proposto di rispondere ai seguenti interrogativi:
“Di che cosa ho avuto bisogno, Che cosa mi è stato utile nel processo di crescita e di sviluppo verso l’integrazione e l’autonomia, in modo particolare a scuola".

“Mi scusi, ma lei è straniera?” Quante volte mi sono sentita rivolgere questa domanda!
Ebbene sì, sono per metà straniera, ho la mamma tedesca e il papà italiano. Fornita questa risposta tante volte non ho bisogno di dare ulteriori spiegazioni al fatto che parlo con un timbro e un accento di voce particolari.
Sono nata a Milano nel 1967, prematura: sono venuta al mondo prima dei sette mesi di gestazione e i medici dissero ai miei genitori di sperare che ce la facessi a sopravvivere. Mi curarono bene ed eccomi qui, grazie al cielo! Quando ebbi 3 anni e ½ si scoprì definitivamente che non udivo. Per mesi i miei genitori, non sentendomi pronunciare quasi nessuna parola, avevano continuato a interrogare la mia pediatra che si ostinava a rispondere loro di aver pazienza, che avrei imparato a parlare, che crescendo bilingue per forza dovevano “darmi tempo”. Ma di parole dalla mia bocca ne uscivano di rado, assai poche, come Löwe, leone in tedesco, una parola che si connota per il suono grave. Mia mamma racconta che – prima che mi venisse diagnosticata la mia sordità – le chiedevo spesso di essere presa in braccio. Abbiamo ricostruito poi che, in questo modo, potevo “sentire le vibrazioni” appoggiando il mio corpo al suo petto, e quindi arrivare a capire anche delle parole attraverso la “via ossea”, canale di ascolto molto importante anzi fondamentale, come ho potuto sperimentare. Ho provato una grandissima emozione, quando, di recente, ho ascoltato la musica con il corpo, sdraiata su un pianoforte a coda in uno straordinario laboratorio di musicoterapia con Giulia Cremaschi Trovesi, decana dei musicoterapeuti italiani, che ha dedicato una vita di studi ed esperienze, con grande intelligenza e passione, a bambini e adulti con problemi di udito e di comunicazione. (4)
C’era sicuramente un altro motivo per cui desideravo stare in braccio ai miei genitori: da quella posizione potevo “osservare” meglio quello che mi circondava. Eh sì, gli occhi diventano fondamentali per cogliere quello che ci sta intorno ma anche per rapportarsi al mondo e comunicare con gli altri. In condizioni favorevoli, si sviluppano in modo pressoché naturale tra le persone con problemi di udito capacità diverse per ascoltare e comunicare con gli altri, vengono messe in atto delle vere e proprie strategie, dalla labiolettura alla LIS. Esiste un patrimonio sempre più ricco di libri di studiosi di scienze umane che raccolgono e stimolano esperienze e ricerche che superino la logica riduttiva lineare che disgiunge pensiero e corpo, percezione e azione, comunicazione verbale e non-verbale, ritrovando la dimensione globale del corpo e inducano a nuove modalità di ascolto e esplorazione della realtà. (5)
A proposito di ascolto con il corpo e non con le orecchie, mi piace proporvi un testo tratto da un romanzo (6) della sensibile scrittrice per ragazzi Emanuela Nava (che ha tratto spunto per il suo racconto da un suo casuale incontro avuto con una persona sorda), in cui un personaggio è Kimu, un ragazzino africano sordo. Il messaggio globale sulla sordità che trasmette tale libro è davvero positivo, come potete sentire anche dalla spiegazione della sua “diversità” che Kimu offre alla piccola Ilaria protagonista della storia:
“Tu senti con le orecchie, ma io sento con gli occhi e con la pelle. Con gli occhi leggo le tue labbra e con la pelle intuisco il trillo delle cose. Posso ballare al ritmo di un tamburo, sai. E posso sentire l’arrivo di un pericolo (…) perché ogni cosa che vive e si muove produce un trillo, un’oscillazione leggera, un soffio che l’intuito e il corpo possono percepire. – ‘Allora non è vero che sei sordo!’ disse Ilaria tutto d’un fiato. – ‘No, ma chi ci sente con le orecchie mi chiama così’.
Un carissimo amico, si chiama Claudio Imprudente (7), che è un eccezionale bolognese con deficit fisico grave, è afasico e per comunicare usa una lavagna di plexiglas trasparente sulla quale sono incollate le lettere dell’alfabeto (e una chiocciola!), che indicate con lo sguardo all’interlocutore gli permettono di esprimersi. È lui che ha coniato il termine “diversabilità”, una parola che oggi capita di veder utilizzata non solo in ambiti culturali ma anche in quelli istituzionali. Dalla definizione di dis-abile si può passare a quella di divers-abile, cambia solo un prefisso, ma ciò significa spostare l’accento dalle “non abilità” – nel nostro caso dal “non udire” – alle “diverse abilità”. Una barriera alla comunicazione come il fatto di non poter articolare le parole – è il problema di Claudio Imprudente – è stata superata grazie all’ingegno di chi ha realizzato la lavagna di plexiglas di cui lui si serve nella comunicazione con gli altri.
Come se ci si fosse trovati davanti a un fiume da attraversare, senza alcun ponte. Cercando intorno dei materiali con cui realizzare qualcosa che assomigli a un ponte si possono trovare sassi, legni… con cui mettersi a costruire un passaggio. Oggi il rischio è quello che pretendiamo – nella nostra civiltà del “tutto e subito” – di trovare la via spianata, possibilmente un’autostrada, non tortuosi sentieri anche faticosi!
A proposito della necessità di non arrendersi alle fatiche e ai dubbi inevitabili in ogni percorso, consiglio di leggere il romanzo-testimonianza di Daniela Rossi, madre di un bimbo con sordità che ha riversato la loro storia in bellissime pagine, che hanno vinto un premio letterario. (8)
I problemi da ostacoli insormontabili possono tramutarsi in occasione di incontro e di collaborazione tra soggetti che insieme cercano di trovare delle soluzioni in modo creativo, di volta in volta, caso per caso, con tutti gli strumenti oggi disponibili.
Desidero portarvi un altro esempio, legato alla mia esperienza. Ho due bambini, ormai in età scolare. Quando furono piccoli mi capitò spesso di doverli curare da sola, nei periodi di assenza da casa di mio marito. La notte toglievo gli apparecchi acustici e così non potevo udirli se piangevano o chiamavano. Allora dovetti – e mi aiutò mia sorella – adattare un avvisatore per udenti alle mie necessità, combinandolo con un altro sistema di tipo luminoso per sordi, finché poi non ne ho trovato uno più moderno, “a vibrazione”.
Ho saputo da una donna molto in gamba, che lei invece ha sempre “usato la mano”, ponendola nella culla dei figli neonati collocata a fianco del suo letto. Del resto anche a me rimarrà impresso per sempre il ricordo delle notti delle prime settimane di vita della mia primogenita, in cui mi svegliavo di soprassalto nel silenzio proprio un minuto prima che lei si svegliasse piangendo per la fame. Che misteriose e incredibili sono le vie di comunicazione tra la madre e la sua creatura!
La comunic-abilità (9), intesa come capacità di stabilire forme diverse di comunicazione con gli altri e con il mondo, mi sembra dunque non dipendere dall’udito… mi è anche capitato di conoscere una straordinaria persona sorda profonda – per la maggior parte della vita non ha udito alcun suono – che è “diventata grande” tra i normoudenti proprio grazie alla sua “comunic-abilità”, inserendosi molto bene nelle reti delle relazioni sociali, sia in ambito familiare che lavorativo….
E oggi giorno abbiamo la fortuna di poter utilizzare un numero crescente di strumenti e ausili! Ovviamente mi riferisco in primo luogo agli apparecchi acustici. Sono stati fatti dei passi da gigante a partire dalla loro apparizione a metà degli anni ’50, dagli apparecchi a scatola fino ai più recenti endoauricolari digitali anche per sordità molto gravi. Grazie a questo tipo di apparecchi costruiti su misura per ogni persona con il suo deficit uditivo e la sua sensibilità acustica, ho intrapreso non molti anni fa un sorprendente “Viaggio alla scoperta del paesaggio sonoro” di cui ho scritto un diario che poi è diventato un articolo (10).
Ma oltre agli apparecchi acustici vanno menzionati molti altri ausili, da quelli pensati espressamente per coloro che hanno problemi di udito come sveglie luminose ecc. a quelli che oggi sono diventati mezzi di comunicazione quotidiana per un’infinità di persone: cellulari e computer con internet e posta elettronica.
Con le nuove tecnologie sono apparsi anche i film con i sottotitoli. Se penso che ho passato la maggior parte della vita a vedermi film senza sottotitoli, cercando di indovinare la vicenda narrata attraverso le immagini che mi scorrevano davanti! Così come a non andare volentieri in locali pubblici con un rumore fastidioso, dove non capivo quasi una parola del discorso di chi mi parlava a fianco mentre oggi i “forum” su internet consentono di sentirsi collegati con gruppi di numerose persone.
Grazie a questi strumenti e innovazioni di tipo tecnologico sono cadute moltissime barriere della comunicazione.
Proseguo con il racconto della mia storia, iniziata quando ancora non c’era la molteplicità di ausili che la tecnologia oggi mette a disposizione di noi tutti.
La mia ipoacusia è bilaterale di tipo neurosensoriale, grave-profonda.
Sul finire degli anni ’60 vennero alla luce gli esiti delle ricerche condotte dal prof. Massimo Del Bo che dal 1969 fu titolare della prima Cattedra italiana di Audiologia presso l’Università di Milano. Venne dimostrato il fatto che molto raramente la sordità è “totale”, per cui quasi sempre è presente un “residuo uditivo” che anche se molto ridotto può essere valutato e sfruttato mediante attrezzature tecniche. (11)
Dopo la diagnosi, quando avevo ormai quasi 4 anni, ho messo i miei primi apparecchi retroauricolari (oggigiorno la mia sordità verrebbe quasi sicuramente affrontata con un I.C. entro il primo anno di vita…) ed è iniziata la stagione della logopedia presso il Policlinico di Milano, che per mia fortuna si rivelò essere come un meraviglioso gioco grazie all’intelligenza, alla passione e alla fantasia dei miei genitori. Infatti essi stessi prepararono e utilizzarono gli strumenti che sono serviti per educarmi al linguaggio orale – decine e decine di “cartoncini” su cui era incollata l’immagine dell’oggetto sotto cui era scritta, in corsivo con una bella calligrafia, la parola che lo designava. Questo metodo stimola ad apprendere vocaboli leggendo.
Ho lavorato con i “cartoncini” dall’età di quattro anni fino a quando ne avevo circa sette; in seguito il veicolo attraverso cui continuare ad arricchire il mio vocabolario furono i libri. Ho scoperto prestissimo la gioia di leggere. Fiumi di parole oltre alle immagini, da cui attingere i termini per esprimermi anche se con una certa titubanza e tremore, acquisendo così nel corso del tempo la padronanza della lingua.
La decodificazione e l’apprendimento delle parole tuttora avvengono non solo attraverso il canale uditivo, ma anche quello visivo! Quando devo capire qualcuno che parla, la labiolettura è per me fondamentale nella discriminazione delle parole, nonostante i progressi avvenuti nel frattempo nel campo delle tecnologie audioprotesiche.

La parola scritta – quindi la lettura e poi la scrittura – è stata per me, fin da piccola, davvero molto importante.
Ancora oggi una parola nuova, quando è un po’ complicata, la comprendo e la memorizzo nel momento in cui la leggo. Ecco un racconto, per far capire meglio questo processo di decodificazione delle parole. È ciò che mi è accaduto qualche tempo fa. Mia figlia, che frequenta la scuola elementare, un giorno mi ha elencato tutto d’un fiato i nomi dei dodici gatti posseduti dalla strega Pasticcia, un personaggio ricorrente nei problemi di matematica proposti dalla sua insegnante:

Motorino
Dolceamore
Ciancicasorci
Bellodinotte
Gnammegnamme
Tiramisù
Buffettobaffetto
Maomatto
Maometto
Sandogat
Misé

Vi lascio indovinare quali nomi ho capito immediatamente. Quali invece ho capito dopo che mi sono stati ripetuti un paio di volte – “Scusami, puoi ripetermi quello che hai detto?” – e quelli che invece non ho assolutamente capito finché mia figlia non me li ha scritti.
nomi martina

Esiste, ho scoperto di recente, una metodologia didattica messa a punto da Bruna Radelli, basata proprio sulla letto-scrittura, rivolta in particolare ad alunni sordi con difficoltà di comprensione linguistica. (12)
Ho frequentato le scuole pubbliche normali, per volontà dei miei genitori che precorsero i tempi, infatti non era ancora uscita la legge dell’integrazione dei sordi e in generale delle persone handicappate nelle classi normali.
Sono stati fondamentali la disponibilità e la buona volontà degli insegnanti.
Venni iscritta dapprima alla scuola materna e successivamente alla scuola elementare, dopo che i miei genitori ebbero acquisito informazioni anche sulle “scuole speciali” che non scartarono a priori. Decisero di iscrivermi alla scuola pubblica dopo aver trovato insegnanti disponibili ad accogliermi nelle loro classi. Sia la signora Buono, insegnante di scuola materna, che la signora Brivio, che mi accolse alla scuola elementare, furono maestre di grande buona volontà che avevano già maturato una consistente esperienza didattica. Conservo il ricordo di due persone che hanno avuto una grande fiducia nelle mie capacità. Ero trattata come qualunque altra bambina, a scuola e prima ancora in famiglia in mezzo ai miei fratelli.
Alla scuola elementare scoprii la diversità delle storie ed esperienze. Era la scuola di quartiere, erano gli anni del boom economico e della massiccia immigrazione a Milano dalle regioni meridionali, ricordo bene come alcune compagne avessero a casa situazioni anche molto difficili, altre situazioni particolari le scoprii conoscendo chi aveva i genitori separati… e così via. Credo che fu così – inserita nella scuola pubblica – che percepii la mia diversità come una delle tante possibili. E in modo naturale accettai la mia ipoacusia. Grazie ai miei genitori! Ho messo a fuoco quanto sia stato essenziale l’aiuto ricevuto dai compagni, mediatori in erba. In particolare il ruolo che ha avuto Maria Laura, amica del cuore avuta sia alla scuola materna che alla scuola elementare… sempre al mio fianco! Mi ripeteva quello che non udivo nel baccano della classe d’asilo. Di quei primi anni ricordo che disegnavo tantissimo. Il disegno rappresenta, in particolare tra chi deve misurarsi con difficoltà di linguaggio, uno strumento di vitale importanza per esprimersi, anche a livello emotivo. Ricordo che, su invito della nostra maestra, andavamo a mostrare i nostri disegni migliori alla direttrice scolastica, che ci incoraggiava molto. Ritrovare Maria Laura nella mia classe di scuola elementare a porgermi nuovamente la mano quando incontravo delle difficoltà è stato essenziale, per proseguire serenamente gli studi. A partire dalle medie Maria Laura ed io abbiamo frequentato le stesse scuole ma in classi differenti, avendo scelto come lingua straniera lei francese io tedesco. Ma fortunatamente mi ritrovai in classe con un’altra amica d’infanzia, Elisabetta, che rappresentò per me un riferimento molto importante insieme a un gruppo di diverse compagne con cui formavamo anche una banda…
Con l’apprendimento di molte diverse materie – e non sempre gli insegnanti si esprimevano in modo che io potessi comprendere… ricordo in particolare un simpatico insegnante con la barba che parlava con accento siciliano mangiandosi per di più le parole – iniziò il tempo in cui i compagni mi passavano i loro appunti, in modo che io potessi aggiornare man mano il lavoro sui miei quaderni.
L’aiuto che è venuto dai compagni mi è stato offerto con spontaneità e naturalezza.
Anni più difficili – ma per ragioni varie, il fatto di non udire bene era l’ultimo dei miei problemi – furono successivamente tra le medie e il liceo. Ho frequentato il Liceo Scientifico.
Mi veniva più facile allacciare relazioni di amicizia con alcuni, assai raramente vivevo la dimensione del gruppo di compagni. Credo che da parte di chi ha difficoltà di udito venga spontaneo privilegiare le relazioni “a tu per tu” e con il piccolo gruppo. E ciò d’altra parte porta ad avere relazioni più profonde con gli altri esseri umani.
Certo, barriere della comunicazione ce n’erano. Ma era possibile superarle. Ingegnandosi a trovare soluzione al problema di volta in volta, quando si presentava. Non ho mai avuto insegnanti di sostegno. Sono sempre stata al primo banco per seguire meglio le lezioni così da udire meglio la voce dell’insegnante e soprattutto in modo da poter vedere le parole sulla sua bocca. Pur prendendo io stessa qualche appunto, poi chiedevo gli appunti ai miei compagni, in modo che comparandoli con i miei potessi avere il testo delle lezioni. Chiaramente oggi sono offerte molte più opportunità di riabilitazione ed aiuto, dentro e fuori la scuola, agli studenti con difficoltà di comunicazione, mi preme sottolineare l’importanza dei piani educativi individualizzati, per cui di volta in volta saranno da valutare problemi e risorse in gioco in famiglia, a scuola… mirando alla vera autonomia della persona, rispettando i tempi di crescita e maturazione individuali.
Mi preme sottolineare anche come fossero davvero “altri tempi” a scuola. Infatti, il tempo che trascorrevo a scuola è sempre stato un “tempo ridotto” rispetto a quello che oggi si richiede di frequentare alla maggioranza dei bambini abili e divers-abili. Addirittura alla scuola materna venne escluso che mi fermassi a mangiare in mensa, perché non sopportavo l’eccessivo baccano che veniva fatto in refettorio, amplificato a dismisura dai potentissimi apparecchi acustici di quei tempi. Anche successivamente non ho mai frequentato la scuola di pomeriggio e credo che questo abbia contribuito ad un apprendimento armonioso, che si svolgeva non solo a scuola ma anche a casa in solitudine e insieme ai fratelli, in un sereno e stimolante ambiente domestico.
Solo giunta all’università mi è capitato di frequentare corsi per un’intera giornata, ma questo non avveniva tutti i giorni e non erano solamente lezioni ex-cathedra, ma anche laboratori in cui si lavorava per lo più in piccoli gruppi. Ma soprattutto, giunta a vent’anni la mia capacità di resistenza era al culmine e seguire lezioni in immense aule a gradoni rappresentava un’autentica sfida! Come quand’ero bambina a scuola, in aula mi collocavo sempre in una delle prime file. Ormai allenata fin dalla scuola superiore, prendevo gli appunti da sola. Quando cedevo alla stanchezza, alla fine di una giornata di lezioni, mi affidavo alla generosità di compagni da cui ricevevo gli appunti da fotocopiare. Inoltre, in base alla materia decidevo anche se valeva la pena sì o no prendere appunti, ad esempio verificando se le dispense e i testi proposti dal docente erano o meno esaustivi rispetto alla lezione impartita in aula.
Gli anni in cui ho trovato un equilibrio interiore e la forza di esprimermi anche in pubblico sono stati quelli dell’università. Ho amato tantissimo lo studio di molte diverse materie, ma anche il tempo libero, coltivando molteplici interessi e intessendo molte relazioni e amicizie. Fu estremamente positivo per me non vivere più nella stretta dimensione della classe, ma in un orizzonte non solo culturale ma anche umano più vasto. E i numerosi lavori di gruppo, previsti nel corso di laurea in architettura, avvenivano nell’ambito di una ristretta cerchia di poche persone (massimo 6/8) con cui la comunicazione era agevole.
Quando ero più piccola non riuscivo quasi a “spiccicare” una parola in pubblico! Già solo sentire la mia voce mi procurava un grande fastidio… mi agitavo tantissimo, mi bloccavo con il cuore in gola, il pensiero si annebbiava. Riuscivo a parlare in pubblico, per esempio nelle interrogazioni scolastiche, a costo di imparare molto bene quello che dovevo o volevo dire.
Ricordo come fosse ieri: quando ebbi 18 anni andai a un campo-lavoro estivo, capitò che il coordinatore di un gruppo di discussione non volle riportare le mie riflessioni all’assemblea e mi costrinse quasi con la forza ad esprimere io stessa i miei pensieri a un uditorio di quasi un’ottantina di persone… con un enorme sforzo vinsi la paura di parlare in pubblico e da quel momento le cose andarono sempre meglio… grazie a Marco!
Tralascio il seguito della mia storia, credo che sia stato importante soffermarmi sul passato, su situazioni ed episodi della mia vita che spero aiutino a capire come sono arrivata a percepire la sordità come una “realtà amica”, talmente connaturata al mio essere che oggi non potrei immaginarmi udente. Ma che significa poi sordità? La stessa persona sorda profonda di cui ho già detto, mi ha trasmesso questo pensiero: “Mi sento sordo tra gli udenti, ma udente tra i sordi…”
Concludo con una citazione che – perdonatemi – può risultare un po’ difficile. Alle volte capita di leggere un testo e di non comprenderlo, di rileggerlo in un diverso momento della vita e di coglierne il significato rimanendone folgorati. È per me sempre meraviglioso trovare parole altrui in cui vengono mirabilmente espresse intuizioni ed esperienze che da soli non si è capaci di dire. Ecco le parole di James Hillman:
“Risvegliarsi al seme originario della propria anima e udirne la voce non sempre è facile. Come si riconosce la sua voce, quali segnali dà? …per poter affrontare queste domande, dobbiamo prima accorgerci della nostra sordità, di tutte le ostruzioni che ci rendono duri di orecchio: il riduzionismo, il letteralismo, lo scientismo del nostro cosiddetto senso comune, che in una parola sono i pregiudizi (n.d.r.). Sembra così difficile, infatti, farci entrare in testa che da un altrove possono venirci messaggi più importanti per la condotta della nostra vita delle informazioni che passano ad esempio per Internet, significati che non scorrono veloci e agevoli, ma anzi si trovano codificati specialmente negli eventi dolorosi, patologizzati, che forse sono rimasti l’unico modo in cui gli dèi possono svegliarci.” (13)
È questo quello che auguro a ciascuno di noi, di prendere consapevolezza delle molteplici forme di sordità, non solo d’orecchio, che rendono difficile la comunicazione, quella interiore e quella tra esseri umani, per cercare di superarle, realizzando insieme in modo creativo nuovi ponti che colleghino tutti noi, bianchi e neri, udenti e non udenti, ciechi e vedenti…
Ho letto in un libro di Tonino Bello un pensiero bello, che gli uomini sono come angeli con un’ala soltanto che possono volare solo rimanendo abbracciati (14); questo, della collaborazione e della cooperazione da imparare anche sui banchi di scuola, è un argomento che andrebbe sviluppato e approfondito. Ma – come Eugenio, una persona con cecità, ci tenne a sottolineare un giorno dopo avermi ascoltata – c’è anche da prevenire il rischio che gli abbracci diventino soffocanti fino ad impedire alle persone di crescere nell’autonomia.
Non mi resta che augurarvi un buon lavoro, con le parole di Alexander Langer (15), affinché diventiate:MEDIATORI COSTRUTTORI DI PONTI SALTATORI DI MURI ESPLORATORI DI FRONTIERA,
capaci di ritrarsi quando il compito di sostegno è concluso e la persona divers-abile è diventata autonoma, integrata nella società in cui vive, capace di domandare e anche di dare lei stessa collaborazione in ogni contesto, da quello familiare a quello scolastico, da quello lavorativo a quello del tempo libero e, non ultimo, in quello dell’impegno civile.

Grazie per l’ascolto.
Se volete scambiare ulteriori riflessioni con me, potete contattarmi tramite la posta elettronica.

Note

(1) Tale concetto-chiave nelle mie ricerche sia da urbanista che da esploratrice dell’arcipelago della sordità, lo “devo” alla conoscenza del libro: Paolo Jedlowski, 1994, “Il sapere dell’esperienza”, il Saggiatore, Milano. Jedlowski è un sociologo che rivolge una particolare attenzione, nella sua ricerca, alla memoria e alla vita quotidiana e alle narrazioni di cui è intessuta, in cui emerge la centralità del “sapere dell’esperienza”.

(2) Suggerisco la lettura – dal libro Arcipelago Diversità a cura di Giuseppe Cartelli, Bulzoni Editore, Roma (2001) – del capitolo di Enrica Répaci intitolato "Sordità: fenomeno complesso e …biotecnologico". Il testo è una chiara sintesi storica dei vari argomenti riguardanti la sordità e i diversi approcci di riabilitazione ed educazione dei bambini ipoacusici e sordi.

(3) Cfr. Zora Drezancic, 1988, “Il metodo creativo stimolativo, riabilitativo nella comunicazione orale e scritta con le strutture musicali”, a cura di Federici A., Tittarelli D. e Valentini M., Quaderni di cinesiologia, Quattroventi, Urbino.

(4) Si veda: Giulia Cremaschi Trovesi (2001), “Il corpo vibrante – teoria, pratica ed esperienze di musicoterapia con bambini sordi”, Edizioni Scientifiche Magi, Roma. In questo testo viene illustrato come il corpo vibrante sia il luogo dove si forma la voce e, di conseguenza, la parola; è il protagonista dell’ascolto, in quanto esprime lo stato emotivo del bambino, ed è il punto di partenza della comunicazione, della gioia di essere attivo nella vita con gli altri, con il mondo circostante, con se stesso.

(5) Tra le opere italiane segnalo: Ivano Gamelli (2005), “Sensibili al corpo. I gesti della formazione e della cura”, Meltemi editore, Roma. Gamelli è uno studioso che esplora molti ambiti e luoghi della società contemporanea ove si scopre un corpo dove le parole si intrecciano con affetti, emozioni, silenzi, sguardi, gesti. Segnalo inoltre il libro della mia maestra, negli anni universitari, di “arte di ascoltare”: Marianella Sclavi (2000), ”Arte di ascoltare e mondi possibili”, Le Vespe, Pescara-Milano. Il testo è frutto di un lungo e appassionato lavoro di ricerca che ha condotto l’autrice anche negli Stati Uniti sulle orme di Gregory Bateson, per approfondire le modalità di relazione, ascolto e comunicazione tra esseri umani superando stereotipi e visioni riduzioniste.

(6) Emanuela Nava (1996), "La bambina strisce e punti", Salani Editore, Milano. Nella letteratura per l’infanzia, oltre a questo racconto, ho trovato anche: Antonio Ferrara (2004), “I suoni che non ho mai sentito” – Edizioni Fatatrac, Firenze. Questi due libri per ragazzi rappresentano, a mio parere, due piccole perle, che invitano ad esplorare con uno sguardo nuovo, quasi incantato, personaggi “diversi” tra cui anche sordi, che si rivelano in grado di sentire… e capire oltre le parole che si odono.

(7) Claudio Imprudente, presidente del Centro Documentazione Handicap di Bologna, ha scritto innumerevoli libri. Uno dei primi, che mi ha accompagnata in tutti questi anni, si intitola “E se gli indiani fossero normali?” (Cappelli Editore, Bologna, 1992) ed è il frutto delle sue esperienze pionieristiche, per favorire tra i banchi di scuola una nuova cultura dell’handicap in cui ogni diversità sia accolta e valorizzata. Il libro in cui Claudio racconta il suo percorso umano e il suo impegno culturale e civile è “Una vita imprudente”, Edizioni Erickson, Trento (2003).

(8) Daniela Rossi (2004), “Il mondo delle cose senza nome”, Fazi Editore, Roma.

(9) Con questa espressione “Comunic-abilità” abbiamo intitolato un recente incontro di sensibilizzazione ed educazione su le diversità e le abilità comunicative rivolto ad alcune classi di un Liceo artistico milanese, voluto da un gruppo di insegnanti, curricolari e di sostegno, che ho svolto in collaborazione con Enrica Rèpaci, Claudio Imprudente e l’équipe del Progetto Calamaio di Bologna, con il patrocinio della Provincia di Milano.

(10) Martina Gerosa, 1997 "Un viaggio alla scoperta del paesaggio sonoro", Parliamone n. 11/12. Sono pagine in cui ho narrato le mie incredibili scoperte del mondo sonoro fatte grazie ad apparecchi acustici endoauricolari risultato delle ricerche più avanzate in campo scientifico e tecnologico, creati in modo personalizzato da un’azienda di Genova, oggi presente anche in altre città italiane.

(11) M. Del Bo, A.Cippone De Filippis (1972), “La sordità infantile grave. Nuove prospettive mediche e nuovi metodi di rieducazione”, Armando Editore, Roma. È il libro, nella sua prima edizione, da cui i miei genitori trassero anche le indicazioni per compiere insieme a me il percorso di acquisizione delle parole.

(12) Si veda: Bruna Radelli (1998), “Nicola vuole le virgole. Dialoghi con sordi – Introduzione alla Logogenia”, Decibel/Zanichelli. Questo libro contiene la trascrizione integrale di quattro lunghi e avvincenti dialoghi che l’autrice, linguista specialista in Grammatica Generativa, ha sostenuto per iscritto con altrettanti ragazzi con problemi di udito. Viene così presentata una metodologia finalizzata all’insegnamento dell’Italiano ai sordi con difficoltà di espressione nella lingua italiana.

(13) James Hillman (1997), “Il codice dell’anima”, Adelphi, Milano. Hillman è lo psicologo che più di ogni altro ha riportato al centro del pensiero occidentale degli ultimi decenni l’idea di anima, un’anima che nella sua concezione diventa un sistema di cura collettiva dei mali dell’umanità. Ha detto: “Dobbiamo liberare l’anima dalla prigione dei concetti che la opprimono, dobbiamo riprendere un linguaggio più antico e più ricco… il sapore, il colore, il corpo.”

(14) Cfr. Antonio Bello (1988), “Alla finestra la speranza”, Edizioni Paoline, Milano.

(15) Alexander Langer (1996), “Il viaggiatore leggero”, Sellerio editore, Palermo. Il volume raccoglie in forma antologica scritti di un intellettuale e politico, anima di movimenti ecologisti e non-violenti, che ha messo al centro della sua ricerca la convivenza interetnica e interculturale, da realizzare attraverso incontri vivi e autentici tra le persone.