VEDERE VOCI

Un viaggio nel mondo dei sordi

OLIVER SACKS

Prefazione del libro, New York 1989
Prefazione alla II Edizione Italiana, Roma 1990

Scrive Oliver Sachs nella Prefazione del libro (New York, marzo 1989):

Tre anni fa non sapevo nulla della condizione dei sordi e non avrei mai immaginato che essa potesse far luce in tanti àmbiti diversi, soprattutto in quello del linguaggio. Poi, e fu una scoperta sorprendente, venni a conoscenza della storia dei sordi e delle straordinarie sfide (linguistiche) che essi devono affrontare; scoprii anche, con meraviglia, che esisteva un linguaggio completamente visivo, i Segni, che si esprimeva in una modalità diversa dalla mia lingua, il parlato. E’ terribilmente facile dare per scontato il linguaggio, la propria lingua – può occorrere l’impatto con un’altra lingua, o piuttosto, con un’altra modalità di linguaggio, per ritrovare la nostra antica meraviglia.
Quando lessi per la prima volta dei sordi e della loro singolare modalità di linguaggio, i Segni, ne fui spronato a imbarcarmi in un’esplorazione, in un viaggio; questo viaggio mi ha portato tra i sordi e le loro famiglie; mi ha fatto approdare alle scuole per sordi e alla Gallaudet, l’unica università per sordi che esista; mi ha portato a Martha’s Vineyard, l’isola del Massachussetts dove un tempo esisteva una forma ereditaria di sordità e tutti (gli udenti non meno dei sordi) parlavano con i Segni; mi ha portato in città come Fremont e Rochester, dove esiste un’interessante interfaccia tra comunità di sordi e comunità di udenti; mi ha fatto conoscere i grandi studiosi dei Segni e delle condizioni del sordo – ricercatori brillanti e appassionati, che mi hanno trasmesso il loro entusiasmo e la loro visione di regioni inesplorate e nuove frontiere. Questo viaggio mi ha portato a vedere il linguaggio, la natura del parlare e dell’insegnare, lo sviluppo del bambino, la crescita e il funzionamento del sistema nervoso, la formazione delle comunità, dei mondi, delle culture, in un modo del tutto nuovo, che mi ha allietato e mi ha fatto imparare tanto. Ma, soprattutto, mi ha permesso di vedere in una prospettiva sorprendente problemi antichissimi, di concepire in modo diverso e imprevedibile il linguaggio, la biologia, la cultura … E’ stato un viaggio che ha reso per me strano ciò che era familiare, familiare ciò che era strano.
Ne sono rimasto affascinato e insieme sgomento. Sgomento nello scoprire quanti tra i sordi non acquisiscano mai correttamente la facoltà di esprimersi – o di pensare – e quale miserevole vita li aspetti. Spesso la mia amica Isabelle Rapin mi aveva detto che la sordità era per lei una < forma di ritardo mentale curabile, o meglio prevenibile>, e ora lo vedevo con i miei occhi.
Quasi immediatamente, però, scoprii un’altra dimensione, un altro universo di considerazioni, non biologiche, ma culturali. Molte delle persone sorde che conobbi avevano acquisito non solo la capacità di esprimersi con disinvoltura, ma anche una lingua completamente diversa, una lingua che non solo era al servizio delle facoltà del pensiero (anzi, permetteva un pensiero e una percezione di un tipo non del tutto immaginabile dall’udente), ma che serviva come mezzo di comunicazione di una ricca comunità e cultura. Pur non dimenticando mai lo status <medico> dei sordi, dovevo ora vederli in una luce nuova, <etnica>, come un popolo dotato di un linguaggio suo proprio, di una sua sensibilità, di una sua cultura.
Non mancherà certo chi pensa che la storia e lo studio dei sordi e del loro linguaggio siano argomenti di interesse estremamente limitato. A mio avviso le cose non stanno affatto così. E’ vero che i sordi congeniti costituiscono lo 0,1 per cento circa della popolazione, ma le considerazioni a cui invitano sollevano questioni della massima importanza. Lo studio dei sordi ci mostra che in buona parte le nostre facoltà precipuamente umane – possedere un linguaggio, pensare, comunicare, creare una cultura – non si sviluppano in modo automatico, non sono solo funzioni biologiche, ma hanno anche un’origine sociale e storica; che esse sono un dono – il più meraviglioso dei doni – che una generazione fa all’altra. Vediamo come la Cultura sia altrettanto cruciale quanto la Natura.
L’esistenza di un linguaggio visivo, quello dei Segni, e degli straordinari potenziamenti della percezione e dell’intelligenza visiva che ne accompagnano l’acquisizione, ci rivela che il cervello è ricco di possibilità che non avremmo mai immaginato, ci fa apprezzare la plasticità e le risorse quasi illimitate del sistema nervoso, dell’organismo umano, quando è posto di fronte al nuovo e deve adattarvisi. Se il tema di questo libro ci mostra quanto siamo vulnerabili, e come possiamo arrecar danno a noi stessi (per lo più senza volerlo), ci mostra anche i nostri punti di forza, finora sconosciuti e imprevisti, le infinite risorse di cui la Natura e la Cultura, insieme, ci hanno dotato per consentirci di sopravvivere e di andare oltre la pura sopravvivenza. Mi auguro quindi che il libro, oltre ad avere un interesse speciale per i sordi, le loro famiglie, i loro insegnanti e i loro amici, parli anche al lettore comune, offrendogli una prospettiva inedita della condizione umana.

Questo libro è formato da tre parti. La prima è stata scritta nel 1985 e nel 19896, e cominciò come recensione di un libro sulla storia dei sordi, When the mind hears, di Harlan Lane. Al momento della pubblicazione (sulla <New York Review of Books> del 27 marzo 1986), questa recensione era ormai diventata un vero e proprio saggio, che fu inseguito ulteriormente ampliato e riveduto. Vi ho tuttavia lasciato certe formulazioni e locuzioni che oggi non sottoscrivo più, perchè ritenevo di dover conservare l’originale qual era, con i suoi eventuali difetti, come riflesso di quel che pensavo agli inizi sull’argomento. La terza parte è stata scritta sulla scia della rivolta studentesca all’Università Gallaudet, nel marzo 1988, ed è stata pubblicata sulla <New York Review of Books> del 2 giugno 1988; anche questo articolo è stato ampiamente riveduto e ampliato per il presente libro. La seconda parte è stata scritta per ultima, nell’autunno del 1988, ma costituisce, sotto certi aspetti, il cuore del libro – per lo meno è l’inquadramento più sistematico, ma anche il più personale, dell’argomento. Aggiungo che non sono mai riuscito a raccontare qualcosa o seguire una linea di pensiero senza imboccare, lungo la via, innumerevoli diramazioni; e ho sempre trovato che questo arricchiva molto il mio viaggio.
In questo campo, tengo a dichiararlo, io sono un outsider: non sono sordo, non uso la lingua dei segni e neppure ne sono interprete o insegnante, non sono un esperto dello sviluppo infantile, e non sono nè uno storico nè un linguista. Come si vedrà meglio in seguito, su questo terreno si affollano opinioni spesso contrastanti e da secoli fieramente avverse. Io sono estraneo a queste contese: sono privo di una specifica competenza o esperienza, ma anche spero, di pregiudizi, di interessi particolari, di animosità.
Non avrei potuto, non dico scrivere questo libro, ma nemmeno compiere il viaggio che in esso descrivo, senza l’aiuto e l’ispirazione di innumerevolipersone; in primissimo luogo gli stessi sordi – pazienti, soggetti, collaboratori, amici -, le uniche persone che possono dare un quadro della situazione dall’interno; poi le persone più direttamente a contatto con i sordi: i familiari, gli interpreti e gli insegnanti. In particolare desidero ricordare il grande aiuto datomi da Sarah Elizabeth e Sam Lewis, e dalla loro figlia Charlotte; da Deborah Tannen, della Georgetown University; dai docenti della California School for the Deaf di Fremont, dalla Lexington School for the Deaf e di molte altre scuole e istituzioni per i sordi, e soprattutto dell’Università Gallaudet. Voglio ricordare tra i molti, David de Lorenzo, Carol Erting, Michael Karchmer, Scott Liddell, Jane Norman, John Van Cleve, Bruce White e James Woodward.
Un debito sostanziale ho nei riguardi di quegli studiosi che hanno dedicato tutta la vita alla comprensione e allo studio dei sordi e del loro linguaggio – in particolare Ursula Bellugi, Susan Schaller, Hilde Schlesinger e William Stokoe, che mi hanno generosamente messo a parte di tutte le loro riflessioni e osservazioni, stimolando nel contempo le mie. Jerome Bruner, profondo conoscitore dello sviluppo mentale e linguistico dei bambini, è stato un amico e una guida insestimabile durante tutto il mio lavoro. Il mio amico e collega Elkhonon Goldberg ha suggerito nuove prospettive da cui considerare le basi neurologiche del linguaggio e del pensiero, e le forme speciali che questo può assumere nei sordi. In quest’ultimo anno ho avuto la gioia di conoscere di persona Harlan Lane e Nora Ellen Groce, i cui libri mi avevano tanto ispirato nel 1986, all’inizio del mio viaggio, e Carol Padden, autrice di un libro che a sua volta mi fece riflettere nel 1988; le loro prospettive sui sordi hanno ampliato l’orizzonte del mio pensiero. Vari colleghi, tra cui Ursula Bellugi, Jerome Bruner, Robert Johnson, Harlan Lane, Helen Neville, Isabelle Rapin, Israel Rosenfield, Hilde Schlesinger e William Stokoe hanno letto il manoscritto di questo libro in vari stadi, comunicandomi critiche e osservazioni e dandomi il loro incoraggiamento: di ciò li ringrazio in modo particolare. A loro e a molti altri devo illuminazioni e intuizioni profonde (ma le opinioni, e gli errori, sono soltanto miei).
Nel marzo del 1986 Stan Holwitz, della University of California Press, reagì immediatamente al mio primo saggio, insistendo perchè lo ampliassi e ne facessi un libro, e durante i tre anni che mi sono occorsi per realizzare il suo suggerimento mi ha appoggiato e stimolato con pazienza ininterrotta. Paula Cizmar ha letto le varie stesure, ogni volta dandomi utili suggerimenti. Shirley Warren ha seguito il manoscritto in tutte le fasi della produzione, facendo fronte con grande pazienza al proliferare delle note e ai cambiamenti dell’ultimo minuto.
Desidero rngraziare anche mia nipote, Elizabeth Sacks Chase, che mi ha suggerito il titolo – tratto dalle parole di Piramo a Tisbe: <Vedo una voce…>.
Terminato il libro, mi sono dedicato a fare quello che forse avrei dovuto fare prima di scriverlo: ho cominciato a imparare la lingua dei Segni. Desidero ringraziare in particolar modo la mia insegnante, Janice Rimler, della New York Society for the Deaf, e gli assistenti Amy e Mark Trugman: essi hanno affrontato con ardimento le difficoltà di addestrare uno studente troppo anziano e non facile e sono riusciti a convincermi che non è mai troppo tardi per cominciare.
Ma il debito di gran lunga più grande l’ho contratto con due colleghi e due curatori, che hanno contribuito in modo essenziale a rendere possibile il mio lavoroe la stesura di questo libro. Prima di tutto Bob Silvers, direttore della New York Review of Books: fu lui a mandarmi il libro di Harlan Lane, con il commento: <Non hai mai riflettuto davvero sul linguaggio; questo libro ti obbligherà a farlo> – e fu proprio così. Bob Silvers intuisce, con una sorta di chiaroveggenza, quali sono i campi che una persona ancora non conosce e nei quali dovrebnbe inoltrarsi, e con questo suo speciale talento maieutico aiuta a portare alla luce pensieri in embrione.
Al secondo posto viene Isabelle Rapin, che per venti anni è stata la mia più cara amica e collega allo Albert Einstein College of Medicine, e che per un quarto di secolo ha lavorato direttamente con i sordi, riflettendo a fondo su di loro. Isabelle mi ha fatto conoscere pazienti sordi, mi ha condotto nelle scuole per sordi, mi ha comunicato le esperienze fatte con bambini sordi e mi ha aiutato a capire i problemi dei sordi come mai sarei riuscito a fare da solo. (E’ anche lei autrice di un ampio saggio-recensione /Rapin 1986/ basato essenzialmente su When the mind hears).
In occasione della mia prima visita all’Università Gallaudet, nel 1986, conobbi Bob Johnson, direttore del Dipartimento di Linguistica; fu lui a farmi conoscere i Segni, a introdurmi nel mondo dei sordi – un linguaggio, una cultura che gli estranei difficilmente possono capire o immaginare. Se Isabelle Rapin e Bob Silvers sono stati coloro che mi hanno spinto a fare questo viaggio, Bob Johnson ne è stato in seguito compagno e guida.
Kate Edgar, infine, ha assolto un compito unico, come collaboratrice, amica, redattrice, organizzatrice, incitandomi di continuo a pensare e a scrivere, a conoscere tutti gli aspetti concreti dell’argomento, senza mai perdere di vista il nucleo centrale.
E’ per tali ragioni che dedico il libro a queste quattro persone.

Prefazione alla Seconda Edizione Italiana, Roma novembre 1990, di Oliver Sacks:

La storia dei sordi in Italia è passata attraverso molte vicissitudini, a partire dal 1784: in quell’anno il sacerdote Tommaso Silvestri, che era stato allievo di De L’Epée, fondò a Roma la prima scuola per sordi. Nella prima metà dell’Ottocento nacquero diverse scuole analoghe, nella penisola, con il risultato di far emergere una popolazione di sordi ben istruita e colta.
Questo sviluppo doveva bruscamente interrompersi nel 1880, quando il Congresso Internazionale degli educatori dei sordi, tenuto a Milano (e dal quale furono esclusi gli insegnanti sordi), bandiva l’uso della lingua dei segni dall’istruzione. In Italia, come altrove, gli effetti furono nefasti, e l’alto livello diistruzione e di cultura raggiunto fino allora, precipitò. Tutte le scuole per sordi abbandonarono la lingua dei segni, licenziarono gli insegnanti sordi (salvo pochissime eccezioni) e, dopo il 1880, divennero ufficialmente soltanto "oraliste"; l’Italia si trasformò in un’autentica roccaforte dell’oralismo. Fu in quel periodo che, sentendosi minacciate, le comunità di sordi in Italia (e altrove) rafforzarono i loro legami formali che le univano, creando Associazioni di Sordi che li rappresentassero, e rappresentassero il lorolinguaggio, la loro cultura, in àmbito locale come su scala nazionale.
Certo le lingue dei segni non scomparvero – quelle lingue native create dalle comunità di sordi; ma dovettero <passare alla clandestinità>, confinate agli scambi colloquiali privati.
Negli ultimi tempi, tuttavia, si è manifestato qualche cambiamento. A partire dalla fine degli anni Settanta, soprattutto grazie all’impegno di Virginia Volterra (presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche a Roma) e dei suoi colleghi, molti dei quali sono sordi, l’interesse e gli studi sulla lingua italiana dei segni sono rifioriti: di questa lingua è stato preparato il primo, breve dizionario, e sono stai pubblicati alcuni importanti lavori. In parte per l’influenza della mutata condizione dei sordi negli Stati Uniti, in Italia, i sordi, quelli più giovani in particolare, si sono resi conto con maggiore chiarezza del proprio status svantaggiato, e hanno cominciato a reclamare un’istruzione migliore, migliori posti dilavoro, programmi televisivi con i sottotitoli, un uso più esteso dei dispositivi DTS per telecomunicazioni. Sempre più si avvertono i limiti e le difficoltà di un’istruzione oralista, mentre quel che occorre è un’istruzione che adotti i segni nativi.
Ogni città italiana, piccola o grande, ha la propria comunità di sordi, circoli per sordi; in molte è possibile trovare teatri per sordi, ciascuno con la propria compagnia di attori. Un ottimo Amleto e un memorabile Rugantino sono stati rappresentati durante il Festival internazionale dei sordi (Deaf Way) tenuto alla Gallaudet University nel 1989, con la partecipazione di una numerosa rapprsentanza italiana. Oggi come mai prima, sono fiorenti in Italia una cultura e una coscienza dei sordi; lo stesso può dirsi per gli studi sulla lingua italiana dei segni, e in generale per gli studisui sordi.
Per contro, una legge approvata nel 1977 ha detrminato la chiusura delle scuole per sordi e il passaggio all’ <integrazione> in scuole normali della grandissima maggioranza dei bambini sordi. Sebbene adottato con le migliori intenzioni, questo provvedimento – di cui si sono avuti riflessi negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in molti altri paesi – ha introdotto una nuova causa di isolamento e un uovo ostacolo alle possibilità di comunicazione. Come già era avvenuto nel 1880, gli effetti sulle capacità linguistiche dei giovani alunni, sulla loro istruzione, sull’intrera loro esistenza sonos tati infausti; si spera che tale follia possa essere fermata prima che vengano chiuse tutte le scuole per sordi – prima che la visione di Tommaso Silvestri venga frustrata per la seconda volta in due secoli.
Sonos tato in Italia più volte di recente e così ho potuto constatare di persona il problema, ho potuto incontrare alcuni dei più valenti ricercatori che studiano l’istruzione di sordi, la loro cultura, la lingua dei segni (molti di tali ricercatori sono sordi essi stessi); ho potuto ammirare con quanto coraggio essi si adoperino per salvare le antiche scuole per sordi dalla minaccia dell’integrazione, rendendole sempre più attive e più efficaci (come accade ad esempio nella scuola di via Nomentana). Le possibilità di istruzione e di lavoro per i sordi, sebbene ancora miserevolmente inadeguate, vanno migliorando, mentre cresce l’attenzione del pubblico e delle amministrazioni. Ma le diffcioltà rimangono aspre: negli Stati Uniti vi sono più di seicento persone sorde con un titolo di dottorato, in Italia sono pochissimi ilaureati. Ho incontrato molti ricercatori italiani sordi che mi hanno colpito per la straordinaria vivezza del loro ingegno e per la loro competenza: negli Stati Uniti avrebbero potuto conseguire il dottorato e avere un lavoro ben retribuito, in posizioni di ricerca; in Italia sono costretti a guadagnarsi da vivere come possono, e quando riescono a fare ricerca (spesso senza essere pagati) lo fanno per passione, come dilettanti. In Italia non vi sono quasi insegnanti sordi per i sordi, nè interpretiprofessionisti – e sì che ve ne sarebbe bisogno! Alla maggior parte delle persone sorde è negato un lavoro all’altezza delle loro capacità. Aggiungo subito, peraltro, che questa situazione non è peculiare dell’Italia: lo stesso, più o meno, accade in ogni Paese europeo, con le importanti eccezioni della Svezia e della Danimarca. Si può sperare che le cose cambieranno negli anni Novanta?
Termino con una nota personale: durante la mia più recente vista a Roma, proprio in questo novembre 1990, sono stato invitato a visitare il Circolo culturale "Fratelli Gualandi", per sordi, e la Polisportiva Silenziosa Romana, che del Circolo costituisce il versante sportivo: entrambi hanno una lunga tradizione. Era un sabato pomeriggio, e nel Circolo c’era una sessantina di persone: dagli anziani, membri del Circolo fin dalla sua fondazione nel 1928, ad alcuni piccoli ancora in fasce, vivaci, attentissimi, già brillantemente "visivi" nel loro atteggiamento. Gli anziani giocavano a carte, fumavano, conversavano tra loro; i giovani leggevano o giocavano a biliardo. Ho visitato anche la Biblioteca, sistemata nel seminterrato, dove sono allineati i trofei sportivi vinti da membri del Club negli ultimi cinquant’anni, assieme a fotografie degli atleti e delle gare. Nel Circolo erano presenti famiglie intere, rappresentative di due, a volte tre, in un caso addirittura quattro generazioni: davano l’immagine di un legame familiare stretto e profondo come è raro trovare ormai tra gliudenti.
In ogni angolo, l’aria vibrava di conversazioni silenziose, di voci visive, con la coscienza di uno scambio prezioso (solo una persona su mille è sorda dalla nascita e pochissimi udenti conoscono i segni, cosicchè i sordi sono avidi di conversazione, di scambi umani, di partecipazione); in ogni angolo avvertivo il senso di una comunità affatto particolare, robusta evitale.