MANDAMI A DIRE
di Pino Roveredo

PARLARE CON LE MANI, ASCOLTARE CON GLI OCCHI.
LA STORIA DI PINO ROVEREDO

Intervista allo scrittore triestino, figlio di genitori sordomuti, che ha
conosciuto in passato il manicomio, il carcere, l’alcolismo. A rinascere ogni
volta lo ha aiutato la scrittura, fino ad aggiudicarsi il premio Campiello 2005.

È una storia, direbbe Battisti, di discese ardite e di
altrettante risalite. Pino Roveredo, triestino classe 1954, ha conosciuto in passato il
manicomio, il carcere, l’alcolismo. A rinascere ogni volta lo ha aiutato la scrittura, "la
voce intima – spiega – che può trovare il coraggio di scrivere nella disperazione e
convincersi che nessuno è irrecuperabile". Con i racconti delicati, crudi e poetici del
suo libro "Mandami a dire" (edizioni Bompiani) ha vinto nel 2005 il prestigioso premio
Campiello, narrando storie di emarginati e "ultimi in classifica". E deve il dono di
scrivere al fatto di essere figlio di genitori sordomuti: lo ricorda anche in questa
intervista, pubblicata dalla rivista "Effeta", 2/2010, della Fondazione Gualandi di Bologna (pdf roveredo intervista).

Roveredo, perché questa esperienza è stata così importante?
"Ho la fortuna di aver conosciuto il silenzio prima del rumore. Per anni, con papà e
mamma, ho parlato il linguaggio dei gesti. E forse devo a questo un certo mio modo di
scrivere, di togliere e aggiungere alle frasi, di tagliare i verbi. Nell’abbraccio infinito
del silenzio, ho imparato che comunicare con i gesti richiede un’esplosione di fantasia
per capirsi, distinguere. Ci vogliono anche molto rispetto e attenzione, come ho scritto
nel primo racconto del mio libro, per parlare con le mani e ascoltare con gli occhi. E
non si può mentire: perché la distrazione del destino che ha tolto ai sordi un senso, ne
agevola altri. Me ne sono accorto fin da piccolo. Era inutile provare a imbrogliare i miei
genitori: se recitavo, mi scoprivano subito. Mia madre, poi, aveva una sua capacità di
invenzione tutta speciale".

Quale?
"Guardava molto la televisione, film e sceneggiati. Non poteva sentire i dialoghi, ma
dopo ne ricostruiva le trame, le sconvolgeva a suo modo, me le rinarrava a gesti con
grande creatività. Mi ha lasciato questa abitudine: ancora oggi, a volte, se guardo un
telefilm tolgo l’audio e mi reinvento la storia".

E di suo padre che ricordo ha?
"Per lui, calzolaio, era un gran vanto che io sapessi scrivere. Ma soprattutto che
sapessi cantare. Mi portava in osteria, io intonavo a gran voce ?Ciao ciao bambina’ di
Modugno per gli avventori del locale. Ed era una festa: mio padre incassava in
compenso abbondanti bicchieri di vino, io un po’ di monete".
Dopo questa infanzia tante esperienze difficili, tra cui il carcere e la
dipendenza dall’alcol. Una vita tra gli "ultimi" della società, e poi il successo
come scrittore…"Per carità. Degli ultimi mi sento sempre parte integrante. Non vorrei per tutta la vita
diventare ?primo’ in qualcosa: dopo, non rimane più spazio per niente. La grande
gioia del Campiello vale per me un penultimo posto. Lo sa? Da mio padre ho ereditato
anche un grande amore per il ciclismo: ma la mia passione sono i gregari, non i
campioni. Su questo ho scritto anche un racconto, “Il maiale col fiocco”. L’ho dedicato
ai miei figli, con l’augurio di essere qualche volta maglie nere, senza l’ansia di
diventare a tutti i costi primi in classifica. È la brutta ansia di questa nostra societ
che rifiuta di conoscere la sconfitta, e insegna ai ragazzi a viverla come un dramma.
Senza capire che, invece, è un passaggio della vita".

Per questo lei lavora come operatore di strada per i giovani
tossicodipendenti?
"È il mio modo di continuare a salvarmi, provando ad aiutare altri a salvarsi. È un
modo anche egoista di ricordarmi chi sono stato e posso tornare ad essere. Il mio
percorso passato mi dà più facilità di approccio con questi ragazzi: li incontro per
strada e mi sentono come uno di loro, uno che ha vissuto le loro situazioni".

Di tossicodipendenze, oggi, si parla meno che in passato.
"È perché il disagio, nella nostra società, corre con la velocità della notizia. Oggi
Simone Cristicchi vince a Sanremo con una canzone che parla di matti, e di colpo tutti
scoprono il disagio dei malati psichiatrici. Domani si girerà pagina e sarà tutto
dimenticato".

Si può insegnare ai più giovani un modo diverso di pensare, che non abbia il
tabù della sconfitta?
"Si può insegnare loro a portare rispetto per i più deboli. Per qualsiasi debolezza. Io
vado spesso nelle scuole, medie e superiori, perché “Mandami a dire” è stato adottato
come testo di lettura in più di duecento istituti. Mi faccio accompagnare a volte da
Marita, una ragazza sordomuta di Pordenone: io leggo brani del libro, lei traduce con il
linguaggio dei gesti. È anche un modo per far capire a chi non è sordo la pazienza
degli occhi, l’attenzione che ci vuole nel dialogo, nell’ascoltare l’altro senza
interrompere. È un’educazione che oggi si sta perdendo. Troppo spesso guardiamo
senza vedere, e ascoltiamo senza sentire". (Luca Baldazzi)
(11 giugno 2007)


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Pino Roveredo su Wikipedia

Pino Roveredo a "Racconti di Vita" – RAI TRE